Mindful eating: una strategia nel trattamento di disturbi alimentari e sovrappeso/obesità

Tra i vari approcci che ruotano attorno all’alimentazione, negli ultimi anni si è fatto strada il concetto della Mindful Eating. Derivante dalle strategie di mindfulness, che godono di comprovata efficacia in molteplici aspetti di vita, dalla gestione dello stress quotidiano al trattamento di vari disturbi depressivi e d’ansia (in combinazione con psicoterapie ed eventuali farmacoterapie), la Mindful Eating prevede l’uso dell’attenzione consapevole applicata all’alimentazione e risulta particolarmente utile nel trattamento di alcune forme di disturbi alimentari e nei casi di sovrappeso/obesità.

Al pari di altre tecniche mindfulness, anche la Mindful Eating ha origini buddiste e può essere tradotta in italiano come un’ “attenzione consapevole, accettante e non giudicante” al rapporto con il cibo.
Applicare la consapevolezza all’atto del mangiare significa imparare ad ascoltare il proprio corpo, i propri pensieri e le proprie emozioni; quindi, far caso al come e al perché si sta mangiando. Vengono messi in risalto questi due aspetti, rispetto al più classico “cosa” si mangia, in quanto l’obiettivo primario non è quello di arrivare a scegliere di nutrirsi sempre nel modo più corretto e salutare possibile, ma iniziare ad essere coscienti di cosa ci guida nel rapporto con il cibo, per poi fare una scelta più intenzionale e consapevole, che potrebbe portare alla luce difficoltà emotive, cattive abitudini o credenze irrazionali.

Andiamo per ordine. È ormai noto a livello clinico che molte manifestazioni di disturbi alimentari, soprattutto quelle che presentano abbuffate compulsive o frequente ricorso a diete con annesse oscillazioni di peso, siano mantenute, tra altri fattori, dall’adesione a regole ‘preconfezionate’ e criteri/doveri imposti a priori così come da momenti di totale trasgressione di tali norme. Queste “regole cognitive” (guidate da pensieri, credenze, autocritiche, standard sociali e riferimenti esterni) tendono a discostarsi dal concetto di “consapevolezza” che è invece radicato nel contatto con la propria interiorità, ed è sinonimo di flessibilità, scelta personale ed equilibrio.

D’altra parte, dobbiamo tener conto del fatto che il nostro cervello è programmato per essere attratto dal cibo grasso e zuccherino e il nostro corpo è progettato per immagazzinare l’energia in eccesso, sotto forma di grasso, per i tempi di carestie. La dieta dell’uomo preistorico era infatti basata sulla regola del: “Se vedi del cibo, mangialo!”. Tuttavia, questo impulso ancestrale mal si applica nella vita moderna, in cui abbiamo accesso facile al cibo; decidere di eliminare alcuni alimenti dalla propria quotidianità (seguendo una dieta restrittiva, peggio ancora se basata sul “fai da te”) può innescare la sensazione di deprivazione e “carestia” e sfociare in conseguenti abbuffate incontrollate.

Per di più, nutrirsi (ed essere nutriti) è da sempre un’esperienza confortante per l’essere umano. Ad esempio, l’allattamento al seno calma e rasserena i neonati, e il legame tra cibo e ricompensa si sviluppa precocemente se i dolci vengono dati per ricompensare un determinato comportamento. Questo può in parte spiegare il motivo per cui ricorriamo all’uso degli zuccheri per gratificarci in un momento di stress, di ansia, di rabbia o di noia. Il viaggio verso una sana relazione con il cibo deve iniziare con una chiara comprensione di queste complesse relazioni.

In quali modi può quindi manifestarsi la mancanza di alimentazione consapevole? Tra altre cose, possiamo citare l’atto del mangiare velocemente senza gustare i cibi, la scelta automatica di terminare tutto quello che c’è nel piatto anche se si è già sazi, il non resistere all’impulso di assaggiare snack o dolci presenti in dispensa nonostante si sia già fatta merenda o non si abbia realmente fame, il distrarre la mente da ansie o delusioni ricorrendo al consumo di qualcosa di appagante (ma spesso mangiato senza gustare).

Tuttavia, non si è in uno stato ‘mindful’ nemmeno quando si decide intenzionalmente e a priori di non mangiare determinati cibi perché considerati tabù o “non salutari”, quando si rifiuta un invito a cena per non doversi confrontare con il cibo o con i giudizi di qualche commensale, quando si valuta la propria autostima in base al controllo sull’alimentazione.

Capiamo, quindi, che non è soltanto la cosiddetta ‘fame emotiva’ la responsabile dell’iperalimentazione e della lotta con il peso e il cibo. Anche seguire delle ‘banali’ norme interiorizzate in famiglia, come dover finire la porzione che ci è stata servita, può condurre alla messa in atto di abitudini inconsapevoli e nocive.

Lungi dall’inneggiare alla cultura dello spreco, è possibile apprendere altri metodi per non buttare il cibo (dall’imparare a servirsi porzioni più piccole, al riuso degli avanzi per altre preparazioni). Che dire, invece, del cortese rifiuto di una seconda porzione, apprendendo l’arte dell’assertività, in favore di un maggior ascolto di sé stessi e dei propri bisogni? Il saper dire di no è un’altra forma di consapevolezza, e il rapporto con il cibo è intriso di eventi o situazioni in cui non siamo stati capaci di esprimere un rifiuto basato su una preferenza personale.

Come si potenzia la consapevolezza alimentare? Il primo step è fornito da un percorso di psicoeducazione alimentare ed emotiva. È infatti fondamentale aumentare la consapevolezza del proprio corpo: apprendere l’ascolto delle proprie sensazioni fisiologiche ci consente di distinguere i vari tipi e livelli di fame, e differenziare la fame dal desiderio di cibo. Secondo, è opportuno sviluppare la consapevolezza delle proprie emozioni e dei propri pensieri, ovvero comprendere cosa ci porta alla ricerca del cibo o al suo rifiuto, da cosa ci gratifica e/o da cosa vogliamo distrarci, e in che modo ci rapportiamo con la nostra corporeità e fisicità.

Come già accennato, in alcuni casi il cibo acquisisce la funzione di mezzo/strumento per gestire l’emotività (sfogare la rabbia, colmare il vuoto della tristezza, placare l’ansia o la noia), per sopperire a difficoltà relazionali e/o affettive, per colmare vuoti di autostima e cali nella fiducia in sé stessi, fino a diventare un mezzo per catturare l’attenzione altrui. Queste e altre situazioni e condizioni potrebbero invece risolversi più efficacemente con un percorso di tipo psicoterapeutico, il quale comporterebbe certamente anche un miglioramento del rapporto con l’alimentazione, la quale tornerebbe ad assumere la sua principale funzione di sostentamento vitale.

Dott.essa Chiara Francesconi
Psicologa-Psicoterapeuta cognitiva
www.chiarafrancesconi.it
Pillole di Psicologia

C’è una “alimentazione consapevole” che cura, quella di cui ci dice la dott.essa Francesconi, e c’è una alimentazione che è cultura, convivialità, storia, rito, tradizione, territorio e clima, ricordo e affetto, emozione sensoriale complessa (visiva, olfattiva, gustativa, tattile), pazienza e fatica, piacere. È questa seconda che, anche nelle comunità opulente, ora manca, appiattita in un monotono consumismo, sovente pseudo-salutista e “alla moda”. È lecito, allora, chiedersi se i disturbi alimentari, specie fra i giovani, sarebbero meno frequenti se ci fosse una diffusa cultura del cibo. La cultura, in fondo, è percezione, apprendimento, quindi anche consapevolezza.

18 aprile 2023